LA STAMPA 25-09-08 : IL LIBRO | |
25/9/2008 - ANTICIPAZIONE | |
Hillman, dalla parte di Afrodite |
"La psicologia e la filosofia cristianizzata hanno messo in trappola la Dea della bellezza"
SILVIA RONCHEY
La verità, vi prego, sull’amore», invocava un grande poeta inglese, Auden. Chi può dire di conoscerlo, l’amore? Eros stesso, come diceva Platone, è l’unico dio a non essere né sapiente né ignorante. Una sola cosa sappiamo di lui: che, come lamentava la Sulamita, «è forte come la morte».
Non parliamo di sua madre, Afrodite. James Hillman, nell’invocazione che apre il suo nuovo libro, La giustizia di Afrodite (ed. La Conchiglia, pp. 83, euro 12), ricorda che rivolgersi alla Dea porta spesso alla catastrofe: «Pensa a Paride, che Ti preferì a Atena e Era, pensiamo alle conseguenze: Troia in macerie, le morti degli eroi. Pensa a Didone, regina di Cartagine, una delle Tue favorite. O a Fedra, resa folle dal suo amore illecito. E pensa alle nostre vite, a come ci riduciamo quando ci visita la Tua ispirazione: diventiamo bugiardi, impostori, pazzi di gelosia».
In questo saggio complesso quanto fulmineo il grande pensatore americano vuole «invitare Afrodite nella psicologia», che non è stata generosa con la Dea, riconoscendola per lo più in astrazioni come «il principio del piacere», e «degradando questo principio al rango di opposto, o perfino di minaccia, al cosiddetto principio di realtà».
Se la scienza psicologica «cerca di quantificare l’universo di Venere producendo statistiche sui suoi picchi libidici, sulle sue occorrenze nei vari stadi della vita e sulle conseguenze del desiderio nei vari tipi di personalità», sono ancora più grandi, nel trattare Afrodite e suo figlio Eros, gli errori della filosofia. Dell’amore si parla in genere o nello studio delle emozioni o nella morale. Il che fa sì che lo si riduca «o alla sfera della fisiologia o a quella della teologia, dove a fare da maestro è Gesù - che personalmente teneva Venere a distanza».
«La lunga storia della filosofia cristianizzata ha separato l’etica dall’estetica, la Giustizia dalla Bellezza, così che generalmente non crediamo si possa essere insieme buoni e belli, morali e attraenti; né che i piaceri dei sensi possano essere una via verso la verità». La scissione cristiana non ammette che la moralità dell’opera stia proprio, o anzi unicamente, nella sua bellezza. Hillman cita Saul Bellow: «La banalità è peggiore dell’oscenità. Un libro piatto è anche malvagio. Può essere allettante e dolce come una torta, ma se è banale e noioso è male puro».
A sua volta la trappola del razionalismo filosofico, segmentando la vasta sfera di Afrodite, imprigiona le nostre menti occidentali, che hanno abbandonato le loro radici mitiche, nei compartimenti stagni del letteralismo: «Le menti che si alimentano di distinzioni finiscono col chiudersi sempre più in un groviglio di scismi». Non è vero che Afrodite sia, come la vede la mente collettiva, immorale o amorale. Al contrario, la sua essenza mitica è profondamente legata alla Giustizia. La combinazione di bellezza e giustizia si coglie già, leggendo bene la Teogonia di Esiodo, «nel momento mitico dell’arrivo di Afrodite nel mondo».
Le «complessità mitiche» che circondano la nascita di Afrodite ci portano al concetto romantico di «confusione»: «Non è forse questo il primo segno della presenza della Dea, una dolce confusione dei sensi, la confusione tra impulso e trepidazione, tra alti ideali e bassi espedienti?». E insieme ci portano a quella «terribile profondità» che riaffiora nell’estetica filosofica del tardo ’700 ed è il tema già greco del sublime. «La sfera della bellezza», scrive Hillman, «comprende il terrore, il timore reverenziale, la vastità, la devastante intensità e l’indeterminata, incomprensibile oscurità senza forma». Quindi «il sublime integra l’idea di bellezza con la profondità psichica».
E la «bellezza resa oscura dal sublime» ci riconduce alla favola di Amore e Psiche, che fa da filo conduttore al libro. E da cui emerge, nella lettura di Hillman, non solo e non tanto una verità sull’amore, ma anche e soprattutto una definizione della psiche. La protagonista della parabola di Apuleio è definita proprio dalla sua vulnerabilità al terrore e dalla sua affinità con la morte. Per questo fin dall’inizio la Dea le è ostile, gelosa della sua possibilità di attingere «alla sola bellezza che Afrodite non possiede»: la bellezza di Persefone, regina del Regno dei Morti. In quanto divinità immortale, athnetos, come i greci chiamavano i loro dèi, la sfera della morte le resta estranea tanto quanto la dimensione del sogno.
Come viene punita da Venere la psiche umana? Quali sono i modi della punizione afroditica? Lo strumento che usa di più, e che è il più vicino alla sua natura, è la punizione attraverso l’amore. Venere si serve di suo figlio Eros, «perché con la sua freccia colpisca la carne dell’anima, così che soffra i terribili, implacabili spasmi del desiderio. Un desiderio così appassionato da somigliare a una sofferenza. Ed è davvero una sofferenza terribile, mostruosa!».
Che è però, nello stesso tempo, il nostro privilegio. «Il fatto che la bellezza muoia dona a ciascuno dei momenti in cui la viviamo uno squisito dolore. Tutti gli eventi, gli amori, gli oggetti stessi diventano come una musica che finirà; e nel momento in cui li percepiamo nella loro vulnerabilità alla morte, acquistano una nuova dolcezza, perfetta».
Ciò che la psiche umana porta alla bellezza è la mortalità. «È questa continua capacità di essere feriti che ci mantiene mortali, fertili e umani».
Non parliamo di sua madre, Afrodite. James Hillman, nell’invocazione che apre il suo nuovo libro, La giustizia di Afrodite (ed. La Conchiglia, pp. 83, euro 12), ricorda che rivolgersi alla Dea porta spesso alla catastrofe: «Pensa a Paride, che Ti preferì a Atena e Era, pensiamo alle conseguenze: Troia in macerie, le morti degli eroi. Pensa a Didone, regina di Cartagine, una delle Tue favorite. O a Fedra, resa folle dal suo amore illecito. E pensa alle nostre vite, a come ci riduciamo quando ci visita la Tua ispirazione: diventiamo bugiardi, impostori, pazzi di gelosia».
In questo saggio complesso quanto fulmineo il grande pensatore americano vuole «invitare Afrodite nella psicologia», che non è stata generosa con la Dea, riconoscendola per lo più in astrazioni come «il principio del piacere», e «degradando questo principio al rango di opposto, o perfino di minaccia, al cosiddetto principio di realtà».
Se la scienza psicologica «cerca di quantificare l’universo di Venere producendo statistiche sui suoi picchi libidici, sulle sue occorrenze nei vari stadi della vita e sulle conseguenze del desiderio nei vari tipi di personalità», sono ancora più grandi, nel trattare Afrodite e suo figlio Eros, gli errori della filosofia. Dell’amore si parla in genere o nello studio delle emozioni o nella morale. Il che fa sì che lo si riduca «o alla sfera della fisiologia o a quella della teologia, dove a fare da maestro è Gesù - che personalmente teneva Venere a distanza».
«La lunga storia della filosofia cristianizzata ha separato l’etica dall’estetica, la Giustizia dalla Bellezza, così che generalmente non crediamo si possa essere insieme buoni e belli, morali e attraenti; né che i piaceri dei sensi possano essere una via verso la verità». La scissione cristiana non ammette che la moralità dell’opera stia proprio, o anzi unicamente, nella sua bellezza. Hillman cita Saul Bellow: «La banalità è peggiore dell’oscenità. Un libro piatto è anche malvagio. Può essere allettante e dolce come una torta, ma se è banale e noioso è male puro».
A sua volta la trappola del razionalismo filosofico, segmentando la vasta sfera di Afrodite, imprigiona le nostre menti occidentali, che hanno abbandonato le loro radici mitiche, nei compartimenti stagni del letteralismo: «Le menti che si alimentano di distinzioni finiscono col chiudersi sempre più in un groviglio di scismi». Non è vero che Afrodite sia, come la vede la mente collettiva, immorale o amorale. Al contrario, la sua essenza mitica è profondamente legata alla Giustizia. La combinazione di bellezza e giustizia si coglie già, leggendo bene la Teogonia di Esiodo, «nel momento mitico dell’arrivo di Afrodite nel mondo».
Le «complessità mitiche» che circondano la nascita di Afrodite ci portano al concetto romantico di «confusione»: «Non è forse questo il primo segno della presenza della Dea, una dolce confusione dei sensi, la confusione tra impulso e trepidazione, tra alti ideali e bassi espedienti?». E insieme ci portano a quella «terribile profondità» che riaffiora nell’estetica filosofica del tardo ’700 ed è il tema già greco del sublime. «La sfera della bellezza», scrive Hillman, «comprende il terrore, il timore reverenziale, la vastità, la devastante intensità e l’indeterminata, incomprensibile oscurità senza forma». Quindi «il sublime integra l’idea di bellezza con la profondità psichica».
E la «bellezza resa oscura dal sublime» ci riconduce alla favola di Amore e Psiche, che fa da filo conduttore al libro. E da cui emerge, nella lettura di Hillman, non solo e non tanto una verità sull’amore, ma anche e soprattutto una definizione della psiche. La protagonista della parabola di Apuleio è definita proprio dalla sua vulnerabilità al terrore e dalla sua affinità con la morte. Per questo fin dall’inizio la Dea le è ostile, gelosa della sua possibilità di attingere «alla sola bellezza che Afrodite non possiede»: la bellezza di Persefone, regina del Regno dei Morti. In quanto divinità immortale, athnetos, come i greci chiamavano i loro dèi, la sfera della morte le resta estranea tanto quanto la dimensione del sogno.
Come viene punita da Venere la psiche umana? Quali sono i modi della punizione afroditica? Lo strumento che usa di più, e che è il più vicino alla sua natura, è la punizione attraverso l’amore. Venere si serve di suo figlio Eros, «perché con la sua freccia colpisca la carne dell’anima, così che soffra i terribili, implacabili spasmi del desiderio. Un desiderio così appassionato da somigliare a una sofferenza. Ed è davvero una sofferenza terribile, mostruosa!».
Che è però, nello stesso tempo, il nostro privilegio. «Il fatto che la bellezza muoia dona a ciascuno dei momenti in cui la viviamo uno squisito dolore. Tutti gli eventi, gli amori, gli oggetti stessi diventano come una musica che finirà; e nel momento in cui li percepiamo nella loro vulnerabilità alla morte, acquistano una nuova dolcezza, perfetta».
Ciò che la psiche umana porta alla bellezza è la mortalità. «È questa continua capacità di essere feriti che ci mantiene mortali, fertili e umani».
Autore: James Hillman
Titolo: La giustizia di Afrodite
Edizioni: La Conchiglia
Pagine: 83
Prezzo: 12 euro
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